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La Corte Costituzionale si pronuncia sulla legittimità delle norme in materia di chiamata in causa del terzo ad opera del convenuto nel rito del lavoro.

Con sentenza n. 67 del 9 marzo 2023 la Consulta si è pronunciata circa la legittimità costituzionale della disciplina risultante dal combinato disposto degli artt. 418, 1° comma, e 420, 9° comma, c.p.c. in materia di rito del lavoro.
Nello specifico, il Tribunale di Padova ha sollevato la questione di legittimità costituzionale delle due norme nell’ambito di un giudizio relativo alla richiesta di un lavoratore dipendente di risarcimento del danno biologico differenziale per malattia professionale, in cui il datore di lavoro aveva chiesto di chiamare in causa la propria compagnia assicurativa senza però instare per il differimento dell’udienza di discussione.
Il giudice a quo dubitava della legittimità della disciplina derivante dal combinato disposto delle due norme sopra richiamate con riferimento all’art. 3 Cost. e, in particolare, al principio di eguaglianza, e all’art. 111 Cost. che sancisce, tra gli altri, il principio di ragionevole durata del processo, per un duplice ordine di motivi.
In primo luogo, con riferimento all’art. 3 Cost., il giudice rimettente segnalava la differente disciplina prevista dal codice di rito, nell’ambito del processo in materia di diritto del lavoro, all’art. 418, 1° comma, c.p.c. per quanto riguarda la proposizione della domanda riconvenzionale da parte del convenuto, e l’art. 420, 9° comma, c.p.c. per la chiamata in causa del terzo ad opera dello stesso.
La prima disposizione, infatti, prevede che il convenuto che proponga domanda riconvenzionale debba, a pena di decadenza nella comparsa ex art. 416 c.p.c. tempestivamente depositata, chiedere al giudice l’emissione di un nuovo decreto di fissazione dell’udienza di trattazione, mentre l’art. 420 c.p.c. non prevede lo stesso onere a carico del convenuto che invece intenda chiamare in causa un terzo.
Tale differente trattamento si porrebbe in contrasto, secondo il giudice a quo, non solo con l’art. 3 della Carta Costituzionale – in quanto vi sarebbe un’ingiustificata diversità di trattamento tra situazioni asseritamente omogenee – ma anche con l’art. 111 Cost. e con il principio di ragionevole durata del processo, in quanto il giudice, a fronte di una regolare e tempestiva istanza di chiamata in causa, è tenuto a provvedervi nella prima udienza di discussione rinviando, in caso di autorizzazione, ad una successiva udienza fissata nel rispetto del termine a difesa del terzo. Siffatto meccanismo farebbe sì che la prima udienza venga celebrata inutilmente con aggravio dei tempi processuali.
La Corte Costituzionale, tuttavia, ha ritenuto infondata la censura sollevata dal Tribunale di Padova sotto entrambi i profili.
Quanto alla presunta violazione del principio di eguaglianza, la Consulta sottolinea come i due istituti in rilievo – domanda riconvenzionale e chiamata in causa del terzo – non possano essere considerate delle situazioni omogenee. Al contrario, trattasi di due situazioni distinte considerato che mentre la domanda riconvenzionale è proposta nei confronti di un soggetto che è già parte del processo, la chiamata in causa si rivolge ad un soggetto esterno. Dunque, la ratio della differente disciplina è pienamente giustificata dalla differente situazione in cui, nel primo caso, il differimento immediato dell’udienza è giustificato dall’esigenza di garantire all’attore, in seguito alla proposizione della domanda riconvenzionale, di trovarsi nella medesima situazione processuale del convenuto per poter pienamente esercitare il diritto di difesa, mentre nel secondo caso è evidente che tale esigenza non ricorre. Peraltro, sottolinea la Corte Costituzionale, la mancata violazione del principio di cui all’art. 3 Cost. deriva anche dalla circostanza per cui trattasi di istituti processuali, relativamente ai quali il legislatore ordinario gode di ampia discrezionalità ed è stato altresì chiarito che una siffatta violazione non possa rinvenirsi neppure alla luce della differente disciplina contenuta nell’art. 269, 2° comma, c.p.c. per la chiamata in causa nel rito ordinario, in quanto è consentito al legislatore articolare diversamente le discipline relative al rito ordinario e a quello speciale tenendo conto delle specifiche esigenze di ciascun modello processuale.
Infine, per quanto riguarda la presunta violazione del principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost. la pronuncia sottolinea come è pacifico che tale principio vada contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali che vengono in rilievo in ambito processuale, avendo peraltro riguardo delle peculiarità che caratterizzano il rito del lavoro.
Più specificatamente, si osserva come la ratio della disciplina in esame – che prevede come suddetto che il giudice si pronunci sulla chiamata di terzo e fissi la relativa udienza alla prima udienza di discussione della causa – risiede nell’esigenza di assicurare il contraddittorio delle parti prima che il terzo possa essere chiamato in causa dal convenuto, tenendo conto che nella maggior parte delle ipotesi il convenuto è il datore di lavoro e, dunque, tale meccanismo consente al ricorrente (lavoratore) di interloquire preventivamente rispetto all’autorizzazione alla chiamata in causa segnalando la natura eventualmente dilatoria e strumentale della stessa. Pertanto, il bilanciamento tra gli interessi in gioco operato dal legislatore tramite tale disciplina non appare irragionevole, bensì giustificato dall’esigenza di garantire al ricorrente lavoratore una tutela effettivamente celere stigmatizzando condotte meramente dilatorie delle parti.